L'AI ci ruberà il lavoro? Molti la pensano così. Il buon senso comune tende a fare l'equazione: “più robot al lavoro = meno esseri umani”. Ma, come spiega
Jerry Kaplan,
«ogni volta che una tecnologia rivoluzionaria
arriva al grande pubblico, non mancano le geremiadi per i poveri lavoratori che perderanno il posto». Peccato che la storia del mondo dimostri esattamente il contrario. Lo scienziato americano, pioniere della Silicon Valley, che questi temi li conosce bene, nel suo
Generative A.I.
(pubblicato in Italia da
Luiss University Press), ci ricorda che
«tutte le tecnologie ammazza-lavoro e risparmia-fatica del passato ci hanno portato a una situazione definita dagli economisti come piena occupazione», negli Usa e in Occidente in generale.
Prendiamo ad esempio l'agricoltura automatizzata. Nel 1800 lavorava in questo settore il 90% della popolazione americana (oggi il 2%) e ogni famiglia spendeva il 43% del proprio reddito per il cibo (oggi il 5%, compresi i ristoranti). E che dire delle fabbriche, dei traporti, del mondo della comunicazione? Vorrà pur dire qualcosa se, calcolato secondo l'inflazione, il PIL della famiglia media americana è passato dai 1000 dollari del 1800 ai 60mila dollari del 2023. Dati di questo genere si posso ritrovare in Italia e nei paesi europei.
L'economia si trasforma, così come la modalità di produzione dei beni (materiali e immateriali). Ci sono sempre stati momenti di cambiamento, assestamenti più o meno difficili, con una ridistribuzione della forza lavoro
verso nuovi settori produttivi.
Oggi automatizziamo il 98% dei lavori
che i nostri avi facevano due secoli fa. Gran parte del nostro reddito odierno viene speso per “beni superflui”, per il piacere, la qualità della vita, il divertimento, la cultura, a differenza di quell'epoca in cui a trent'anni eri vecchio (sì, il progresso ha portato anche la longevità) e tutto il reddito veniva destinato alla sussistenza.
L'intelligenza artificiale, dicono, porterà all'automazione di 300 milioni di posti di lavoro. La cifra appare catastrofica a leggerla così, in astratto. Ma non significa che 300 milioni di persone rimarranno senza occupazione. Semplicemente, in questo momento non siamo in grado di immaginare che mestiere faranno. D'altra parte quanti sanno che il 57% dei lavori che svolgevamo nel 1960 oggi non esiste più?
L'AI, anzi la Gai (l'intelligenza artificiale generativa), dovrebbe portare a un aumento della produttività dell'1,5%
nei prossimi decenni. Quindi, sì, può darsi che spariscano, o cambino drasticamente, mestieri pratici
come «dipingere un muro, valutare una Tac, riempire uno scaffale, tagliare un prato, ispezionare i reparti di una fabbrica, controllare i passaporti in un aeroporto»
(risolvendo però anche molti problemi, intrinsecamente umani, in vari campi, a partire da quello medico).
Mentre è improbabile che vengano toccati mestieri «che richiedono la capacità di interagire faccia a faccia, di capire un’altra persona ed empatizzare
con lei, o in generale l’espressione autentica di emozioni umane. Pensiamo a venditori, consulenti e advisor di ogni sorta», ma anche «chi è dotato di particolari capacità personali, come i musicisti, i performer e gli atleti», il luxury e l'assistenza personale, «infermieri, guide turistiche, baristi, dog sitter, sarti, chef, istruttori di yoga e massaggiatori».
Ma soprattutto arriveranno nuovi mestieri, dal “prompt engineering”
ai “data wrangles”, dai software engineer
agli addetti al monitoraggio delle AI
o i «consulenti di Reinforcement Learning from Human Feedback (Rlhf, apprendimento supplementare tramite il feedback umano)».
Tutto dipenderà dalla nostra capacità di ripensare la formazione professionale, soprattutto di chi rischierà il lavoro. Formazione (e aggiornamento) che non sarà più solo una questione di welfare, di investimento sociale dello Stato, ma un settore su cui anche i privati dovranno spendersi, per sostenere il processo di cambiamento. «Dobbiamo smetterla di credere che la formazione professionale sia un salvagente lanciato dal governo, e cominciare a considerarla per quello che è davvero: un investimento legittimo con un valido scopo economico».